Andiamo per gradi. In una centralissima Scampia londinese, all’ombra del famoso skyline fallico della City, si trascinano giovani “senza futuro”, condannati già ad una vita di affiliazione a bande di zona, musica da pogata, birra in mano, tirata di coca e sguardo da duro. C’è chi ci prova a non rimanere invischiato nella ragnatela, ma i buoni si confondono e si fanno via via più evanescenti.
C’è Lucy (Maisie Williams), la non bellissima di turno dallo sguardo illuminato dalla voglia di riscatto, che viene stuprata per sfregio, per lanciare un messaggio al fratello e alle sue remore ad unirsi ad una gang.
C’è Tom (Bill Milner), l’amico segretamente innamorato che non riesce a fermare l’aberrante misfatto… perde pochi preziosi secondi e scappa con il cellulare all’orecchio per chiamare i soccorsi. Un colpo di pistola degli inseguitori fa esplodere l’apparecchio. Pezzi di cellulare gli si conficcano irrimediabilmente nel cervello.

Nasce un supereroe connesso al web, che controlla device col Wi-Fi della mente, comanda meccanismi, spegne e accende luci, stereo, tv e frullatori, intercetta conversazioni e geolocalizza i nemici. Insomma, cinematograficamente parlando, un adolescente a metà strada tra il nipponico Tetsuo e la Carrie di Brian de Palma, ma con i poteri di un iPhone. Inizia una vendetta lenta e un po’ pasticciona che galleggia tra gli ormai rodati cliché del genere: i delinquenti sono i compagni di giochi d’infanzia che, crescendo, hanno scelto la delinquenza, e l’opera guastatrice del protagonista lo infila nel classico vicolo cieco dell’epilogo finale.

Su tutti troneggia il cliché per eccellenza: il ragazzo di quartiere fatto uomo e a capo di una organizzazione potente (Rory Kinnear), talmente potente che, grazie alla vigliacca delazione dell’amico fraterno, individua subito (???) in Tom la causa dei fallimenti delle ultime avventure criminose. Dopo agguati, sabotaggi, rapimenti e duelli, il film si conclude come da antologia. Tutto questo accade in iBoy (tratto dal romanzo omonimo di Kevin Brooks), ma la cosa frustrante e ciò che non accade e, ignominiosamente, voglio impugnare la “pistola di Anton Čechov” e la teoria dell’anticipazione romanzesca da lui formulata secondo la quale «se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari».

Voglio scomodare il grande drammaturgo russo perché guardando certe scene topiche di questa produzione originale Netflix UK, non faccio che pensare a quante volte la pistola sia apparsa e a quante volte non abbia sparato.

Il pathos di certe situazioni, finalmente giunte all’acme narrativo, doveva risolversi istantaneamente con il revolver comparso al giusto momento, nelle giuste mani del protagonista Tom e, addirittura, della sequestrata Lucy. Ad un certo punto mi andava bene che facesse fuoco anche dalle mani del criminale di turno, purché tutto avesse un senso e il gigionesco monologo del villain (oddio, un altro cliché) venisse interrotto.

Perché tutto ciò? Perché la carne è stata fatta frollare così tanto prima di essere messa al fuoco? Forse non si voleva sbattere in faccia al telespettatore troppa violenza? O più semplicemente tutto è destinato a diventare un serial Netflix? Visto il mancato “sacrificio” di alcuni personaggi forse il motivo potrebbe essere questo. Chi vivrà vedrà.

Sono sempre più convinto che iBoy vada benissimo per gli adolescenti (e che male c’è?) che hanno masticato ancora poco cinema e per cui anche i cliché sono una novità.

Per ragazzi che si immedesimano in un eroe semplice, tecnologicamente alla loro portata… che può funzionare senza il peso di imparare codici di programmazione, di laurearsi in ingegneria informatica, ma operare per intervento divino. Roba basic, insomma.

Detto ciò, la regia di Adam Randall alla sua prima prova importante, è curata ed efficace. La fotografia è ottima, chiara, e il digitale sfrutta appieno le possibilità cromatiche di panorami notturni cittadini, raramente nella realtà così nitidi.

Ok Maisie Williams, la mia Arya Stark. E’ lei il motivo per cui ho visto iBoy, devo confessare. E le aspettative sulla ragazza non mi hanno deluso. Nonostante sia stata infilata in situazioni in cui Arya Stark sarebbe andata tranquillamente fino in fondo, scaricando il revolver e infierendo poi col calcio della pistola sul cranio dei suoi aguzzini, Maisie ha dato corpo a un bel personaggio, sfavillante in confronto alla recitazione un po’ piatta del protagonista. Ma del resto, con quegli occhi, Maisie Williams è la nuova Bette Davis… e sa pure recitare, cribbio!

Infine, solo dai titoli di testa ho scoperto che nel cast c’era Rory Kennear e non sapendo quale ruolo avrebbe ricoperto e volendo dimenticare il pur bravo maialesco Prime Minister di Black Mirror, ho sognato per un attimo di ritrovare l’anima del Moderno Prometeo che tanto mi ha fatto sognare in Penny Dreadful. Invece ha fatto il boss del quartiere… un Savastano cockney con morale autoreferenziale. Però, accidenti, Rory è sempre grande: quando uno è bravo lo dimostra anche con solo una giornata sul set.

Niki Manzoni

iBoy (ovvero la pistola inceppata di Anton Čechov)
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