Gilmore Girls: A Year In the Life (tradotto per noi in Una mamma per amica: Di nuovo insieme) fa parte, forse, di una delle più attese e, secondo me, meglio riuscite operazioni nostalgia messe in piedi da Netflix. Un colpaccio, nel bene e nel male.
Il prologo della serie classica è semplice: una ragazza di sedici anni, unica rampolla di una ricca famiglia del Connecticut, rimane incinta del suo fidanzatino del liceo. Conscia dell’errore, non riesce a sopportare il peso della “posizione sociale” e sceglie la cosa meno ovvia. Molla tutto e da sola si rifugia in una enclave antropologica di nome Starshollow.
Le sette stagioni di Gilmore Girls raccontano di Lorelai, la non più adolescente in fuga, e della bambina che ha avuto e che porta il suo stesso nome, ma che tutti conoscono come Rory. Il palcoscenico è diviso con la terza Gilmore, Emily, la madre borghese evitata per quattordici anni ma che entra prepotentemente in scena nel momento in cui Lorelai ammette che da sola non può farcela e, per assicurare a Rory un futuro ricco di possibilità, deve scendere a patti con sé stessa e con la madre: riallacciare i rapporti in cambio del pagamento delle rette scolastiche.
La caratteristica di Gilmore Girls, in una sola parola, è la controtendenza.
Controtendenza sussurrata, ma forte, micidiale: una ragazza madre non deve tirare su per forza una figlia disadattata, non diventa tossica, non è votata all’autodistruzione.
Lorelai, alimentazione e caffeina a parte, è coscienziosa e senza farlo pesare, ha sacrificato molto di sé per la figlia. Rory è quanto di più auspicabile per ogni genitore. È un’adolescente e non è scevra dai problemi tipici di quella età; fa i suoi errori, ma pone lo studio davanti a tutto, fissa i suoi obiettivi già in giovane età. Sa essere grata per ciò che ottiene e ricambia come può.
Il luogo abitato non è nemico, non ti accoltella sul marciapiede se abbassi la guardia: Starshollow è il villaggio ideale. È la chimera fatta di mattoni, strade, negozietti e meli autunnali. Impari a conoscere ogni singolo abitante e ti ritrovi a sperare nel tuo prossimo anche solo nell’ambito del tuo condominio.
Lo svolgimento della trama, anche se incentrato su tre “ragazze”, non ha in realtà una connotazione femminile e, soprattutto, non ha riferimenti alla femminilità estremizzata e commerciale di tanti altri show televisivi di successo.
Non si vede mai Lorelai cambiare pettinatura ad ogni inquadratura, sfoggiare Manolo Blahnik e borse Prada come se non esistesse un limite al castelletto bancario. Molte scene delle protagoniste sono ambientate nei luoghi di lavoro, la locanda per Lorelai e la scuola o lo studio per Rory, e durante ogni singola stagione, fateci caso, Lorelai indossa sempre lo stesso cappotto e porta la stessa borsetta. Gilmore Girls non è fatto per vendere un prodotto. È fatto per rendere realizzabile un’utopia.
Gilmore Girls è un esempio serio di letteratura televisiva la cui scrittura non teme paragoni o deprezzamenti. La peculiarità è tatuata già negli autori, i coniugi Palladino, Amy Sherman, già creatrice del modernissimo Pappa e Ciccia, e Daniel, tra gli autori de I Griffin.
I dialoghi sono sempre veloci, serrati e a momenti surreali. La comicità è insita in ogni frase e non sempre si riesce a cogliere se non si ha alle spalle un bagaglio di conoscenza pop che passa dal cinema, per arrivare alla tv e alla musica, alla poesia e alla prosa.
Gli argomenti trattati, che ad uno sguardo superficiale sembrerebbero avvolti da una pucciosa nuvola rosa, sono in realtà lucidi e non banali e forti di una certa maturità. Lo si nota anche dall’affiancamento nella scrittura, per alcune stagioni, di Jenji Kohan, non per nulla autrice di Weeds e di Orange Is The New Black.
Le interpretazioni sono tutte brillanti e all’altezza; protagonisti e comprimari compiono dei balletti verbali e mimici da frastornare i fan e da dividere l’audience in due sole tipologie di telespettatori: chi ama le ragazze Gilmore e chi le odia. Non c’è via di mezzo.
La serie si è conclusa nel 2007, lasciando un popolo di fan orfani di una storia che, al settimo anno, è comunque giunta ad un suo compimento, con l’ormai cresciuta Rory che inizia la sua vita da adulta e con un’ultima inquadratura da fuori la vetrina del ristorante del paese, dove noi cittadini onorari di Starshollow spiamo madre e figlia e il loro ultimo caffè prima della separazione, col burbero Luke poco distante, rispettoso dell’intimità tra le due.
Per sette anni le vicende delle tre ragazze Gilmore hanno affiancato la crescita e la maturazione dei giovani adulti del millennio appena nato; hanno costituito un’alternativa “possibile” dimostrando che per avere successo e diventare cult non occorre affiliarsi ad una banda di motociclisti e vendere armi, o cucinare metamfetamine o fare le adolescenti su tacco dodici alle prese con ricatti e omicidi al limite del grottesco.
La separazione è cessata nel 2016, quando Netflix e i Palladino ci hanno regalato un anno a Starshollow. Un abbraccio fugace, ma intenso. Quattro episodi dalla durata di circa 130 minuti ciascuno, quattro stagioni in compagnia dei nostri amici. Quattro puntate che ci hanno ricordato che c’è sempre un gusto un po’ amaro in un ritorno a casa, ma è un passaggio obbligato perché con l’accumulo degli anni, tornare nei propri luoghi dà la misura di dove (e come) siamo giunti al punto in cui siamo.
Gli elementi classici sono stati tutti ritrovati. La freschezza nella scrittura è rimasta ed è stato un piacere bagnarsi sotto la pioggia di parole, di battute e di nonsense. È stato come scendere dal treno e trovare sulla banchina tutti i volti noti ad aspettarci, a darci pacche sulle spalle. Qualcuno è comparso per brevi inquadrature, altri hanno consolidato la loro esistenza rubando doverosamente la scena.
Lorelai (Lauren Graham) e Rory (Alexis Bledel) garantiscono la continuità del loro rapporto, maturando nei silenzi del fallimento e ritrovandosi come sempre nel momento del bisogno, ma è stata Emily Gilmore (Kelly Bishop) l’autentica “regina” della riedizione, dando al personaggio dell’arcigna e snob un nuovo colore, intenso e luminoso che nasce, purtroppo, dal lutto reale e sulla scena dell’iconico patriarca Richard Gilmore (Edward Herrmann), tristo pretesto per un’impennata della sceneggiatura dedicata al racconto dell’inevitabile scontro tra madre e figlia nella gestione della morte.
La “rivelazione” è stata Paris Geller (Liza Weil), la rivale scolastica di Rory, che annienta chiunque divida con lei la scena, dando vita ad un personaggio carrarmato che la vita non la subisce, la dirige.
La “sorpresa” è stata l’attrice Rose Abdoo che per anni ha dato vita a Gipsy, la scontrosa e un po’ sottoimpiegata meccanica di Starshollow e che, nel silenzio generale e camuffata da un incredibile trucco, ha impersonato un nuovo gustoso surreale personaggio, Bertha la cameriera sudamericana (???), che installata nella magione di Emily Gilmore ha costituito un elemento fondamentale della narrazione.
Non voglio soffermarmi su quanto siano invecchiati i personaggi, sui dimagrimenti sospetti, sui parrucchini, sugli zigomi gonfi, sulla scelta di inserire un momento musical, su Lorelai che va a fare trekking e sull’infilata di fallimenti lavorativi e amorosi di Rory.
Non sono argomenti che mi interessano perché non mi aspettavo di ritrovare Starshollow tale e quale l’avevo lasciata. Non la volevo così, perché in quasi dieci anni pure io sono cambiato, e parecchio.
Tutto mi sarebbe suonato finto, fatto apposta per accogliermi e tranquillizzarmi. Invece ho trovato, accanto al solito divertimento, il rumoroso vuoto di chi anche nella mia vita non c’è più, ho trovato i sogni non realizzati e i capelli bianchi dove prima erano neri.
Chi è rimasto deluso da Gilmore Girls: A Year In the Life lo è perché, forse, trova nel passato il proprio riscatto. Chi è invecchiato e porta le cicatrici della vita, piccole e grandi che siano, trova invece conforto nel vedere che anche i suoi eroi, per quanto immaginari, hanno i loro bravi segni.
E quell’ultimo dialogo tra madre e figlia, quella frase detta sotto il gazebo della piazza di Starshollow, quella chiusura che i Palladino avevano da sempre avuto in mente per lo show, ti lasciano capire che, ferite a parte, la vita comincia ogni giorno.
Niki Manzoni