The Get Down, il fulmine che colpì la Grande Mela. New York nel decennio degli anni 70, attraversò una crisi fiscale che ancora oggi viene ricordata come uno dei momenti più cupi della sua storia. Un tempo in cui la più grande città della più potente nazione della terra sembrava collassare su se stessa.
I temi dominanti furono disoccupazione, criminalità e crisi finanziaria. In soli cinque anni, dal 1969 al 1974, la città perse oltre 500.000 posti di lavoro, il numero di famiglie bisognose superò il milione di unità; il servizio socio assistenziale si ritrovò nella impossibilità di poterne gestire i costi.
La soluzione drastica, giustificata dal totale disinteresse di Washington, si tramutò in tagli agli stipendi e licenziamenti. Il tasso di criminalità raggiunse livelli insostenibili; spopolamento, incendi dolosi ed interi quartieri abbandonati disegnavano l’orizzonte, creando vaste aree di degrado urbano. Ambienti e circostanze nei quali il bisogno di autodeterminazione delle giovani generazioni sentiva la necessità di emergere dalle macerie delle possibilità negate.
The Get Down intreccia questi eventi storici alle radici della cultura Hip Hop, ponendo il Bronx come l’epicentro del movimento. Tuttavia, si tratta di una rivisitazione adattata ai nostri giorni, edulcorata. Baz Luhrmann è un regista di grande talento, ha uno stile unico, difficile da confondere: colorato, poetico, abbagliante, eccessivo e sopratutto costoso. La vostra sensazione verso The Get Down potrebbe variare in relazione all’opinione sulla regia nel primo episodio, impronta che viene meno quando la serie acquista una prospettiva differente da quella suo creatore, i cui eccessi artistici si adattano meglio in certi ambienti e meno in altri. Il pilot è quasi una lunga anteprima, perché l’autore cerca di stipare a forza la sua visione: ciò che vuole dire sull’argomento e sui personaggi, senza mai convincerci del tutto.
Gran parte del tessuto estetico dello show non proviene esclusivamente da storia o documentari d’epoca (anche se presenti nei montaggi); è figlio diretto del Summer of Sam di Spike Lee e dei primi film di Walter Hill: I Guerrieri della Notte e Strade di Fuoco. Visivamente è tanto sorprendente quanto artefatto. Con una cifra approssimativa di 120 milioni di dollari per una stagione di 12 puntate, risulta uno degli show più costosi mai prodotti da Netflix.
La prima ora sembra confinare i vagiti dell’Hip Hop al melodramma di Romeo e Giulietta, condita da groove e mitopoiesi urbana; ma nelle ultime scene ci concede il giusto prurito per poter proseguire, ed è semplicemente spettacolare. I restanti cinque episodi cambiano completamente le carte in tavola, la musica si dimostra la salvezza per The Get Down.
Il contributo del giornalista Nelson George, l’entusiasmo di Grandmaster Flash e la partecipazione di Nas come produttori hanno sicuramente evitato prendesse una piega meno adatta al tema.
La serie ruota intorno alle esperienze musicali ed affettive di Ezekiel, in anni in cui il Rap non esisteva ed a malapena se ne potevano intuire le basi. C’era la disco music, i locali di lusso, lo sfascio dei quartieri poveri, gli amici, la voglia di creare ed affermarsi e l’infatuazione per Mylene, figlia di un ministro della chiesa che considera la musica come un’arma del diavolo. Le imprese creative dei ragazzi che intrecciano graffiti, il DJing, la breakdance e l’mceeing: i quattro pilastri dell’Hip Hop.
I protagonisti della serie hanno un fascino magnetico, la colonna sonora è strepitosa, la regia è curata con stile e la storia meritevole di tanto sfarzo. Date le immense doti del cast e l’approccio epico, le scelte creative diventeranno trascurabili perché The Get Down assume maggior definizione, tono e coerenza, ed è un’opera maestra.
Cast: Justice Smith, Herizen Guardiola, Shameik Moore, Yahya Abdul-Mateen II, Jimmy Smits, Giancarlo Esposito
Creatore: Baz Luhrmann
Daniele Orrù