Tronfio cliente di Amazon, mi sono avvicinato con presuntuoso scetticismo ai telefilm originali di Amazon Prime Video e ho avviato la prima puntata di The Man in the High Castle, tanto per vedere l’effetto che fa.
L’effetto è stato positivo. Molto. Ed è rimasto invariato per le due intere stagioni presenti sulla piattaforma.

La seconda guerra mondiale è finita male. L’asse Berlino-Tokio (la fedifraga Roma non è degna di menzione) ha vinto e si è spartita il globo in base alle rispettive influenze. Washington è stata cancellata delle bombe nella realtà sganciate su Hiroshima e Nagasaki; gli Stati Uniti sono in ginocchio.
Lo Stato più potente del mondo è diviso in tre parti, ad Est “Grande Reich Nazista”, colonia della Germania, ad Ovest “Stati Giapponesi del Pacifico” sotto il controllo nipponico, in mezzo una zona franca, lungo la spina dorsale dalle Montagne Rocciose, troppo simile al Far West.
Il simbolo di potere per eccellenza, il dollaro, non c’è più. Nelle banconote “l’occhio che tutto vede” è stato sostituito ad Ovest dallo Yen e ad Est dal Marco tedesco, col baffo imbiancato del Fϋhrer.
La selezione ariana è una realtà affinata e ormai a pieno regime a Est. Le analisi mediche assurte a ruolo di selettori della perfezione sono applicate con raggelante normalità, come anche la cristiana soppressione dei malati e dei diversi.
Il futuro del mondo è legato al tremolio dell’asse tra Germania e Giappone, alleati troppo diversi per poter convivere, pronti a saltare ad ogni più piccolo e sperato pretesto.

Questo è lo sfondo su cui si muovono i protagonisti, pescati nel barile di un’umanità che nuota e galleggia in questa geografia riscritta: i membri della resistenza contro giapponesi e tedeschi, i partigiani improvvisati e arruolati loro malgrado, i terribili funzionari nipponici e gli altrettanto disumani gerarchi nazisti, divisi tra il combattimento col nemico atavico (il vile invasore), l’annientamento dell’ex amico e lo scongiuramento della terza guerra mondiale.

Tra questi si insinua il misterioso Uomo nell’Alto Castello, lo spacciatore di inquietanti, meravigliosi e profetici filmati di propaganda in Super 8 le cui immagini raccontano un futuro diverso, nel quale gli Stati Uniti hanno vinto e l’assetto mondiale è quello a noi noto, dove l’unico spauracchio è costituito dalla guerra fredda tra USA e Russia e il fiato del mondo è sospeso in attesa dell’esito del duello tra le due.
Gli effetti di questi filmini di contrabbando sono importanti e i leader che hanno voluto la guerra, si preoccupano che la guerra non ricominci.

Hitler è angosciato da ciò che vede nei cortometraggi, che su di lui hanno l’effetto più devastante. Si attacca alla vita e la dedica al recupero delle pellicole per sapere se gli resta ancora del tempo e se la sua politica di distensione e convivenza riuscirà ad evitare il conflitto.
Allo stesso tempo, il principe ereditario del Giappone, nonostante la sua giovane età e inesperienza, sa benissimo che il suo stato di semidivinità è solo un titolo, inutile per fermare la deriva dei venti di guerra.

Il romanzo alla base della fiction è stato scritto da un gigante troppo presto scomparso, ma allo stesso tempo prolifico e fantasioso: Philip K. Dick, il quale nel 1962 diede alle stampe The Man in the High Castle, l’Uomo nell’Alto Castello, tradotto in Italia con l’evocativo titolo La Svastica Sul Sole.
Insieme al coevo Isaac Asimov, P.K. Dick è stato il teorico dello sviluppo fantascientifico della società, caratterizzato dall’inscindibile e, in chiave artistica, fertile matrimonio tra distopìa e ucronìa.

Proprio questi due concetti cari agli scrittori pessimisti della “guerra fredda” sono a base del romanzo The Man in the High Castle, la cui trasposizione in fiction ne ha comportato un pesante rimaneggiamento, mirato ad una commistione tra i “mondi” più digeribile agli stomaci del nostro millennio e per dare un maggiore risalto, oltre ai personaggi pensati da Dick, anche a quelli aggiunti dagli sceneggiatori. Ma il risultato è buono, lascia invariato il fascino della storia raccontata, esaltandone l’evoluzione in quella filmata.
Quando gli adattamenti dei romanzi sono così ben fatti e i mezzi a disposizione sono impiegati con criterio, la letteratura del passato riesce a regalarci emozioni visive e interiori che chi ormai macina serie su serie, difficilmente riesce ancora a provare.

L’ottimo risultato della produzione e della scrittura di The Man in the High Castle è il frutto di un’equazione che non può sbagliare. Alla scrittura abbiamo Frank Spotnitz, il cui nome è legato a filo doppio ad X-Files, e alla produzione Ridley Scott, che già con Blade Runner (tratto da Ma gli androidi sognano pecore elettriche?) ha dimostrato più di ogni altro di saper rendere immagine l’universo di Philip K. Dick.
Essendo il periodo storico narrato coevo a P.K. Dick, Scott e Spotnitz non hanno potuto esagerare con l’impianto futuristico alla Blade Runner; tuttavia la scelta registica ha dato allure e solidità al racconto degli anni ’60, esaltati da una fotografia seppiata con preponderanza dei toni di blu e marrone e da un’aria piacevolmente fumosa e retrò.
Le atmosfere di The Man in the High Castle, ispirate ai film sulla resistenza di matrice nostrana, sono molto europee e sergioleonesche, specie per le riprese nei vicoli newyorchesi, dove tra automobili dalla linea rockabilly ma allo stesso tempo futuribili, tra schermi tv a tubo catodico, ma allo stesso tempo piatti, tra aerei transoceanici più simili a razzi interplanetari, i bravissimi attori danno vita a personaggi che si barcamenano tra delazioni, pizzini, appostamenti, doppifondi e intercettazioni su telefoni in bachelite.

Il telefilm piace perché è fatto bene, e questo è un dato oggettivo. Già il solo episodio pilota ha unito critica e pubblico, garantendo un gradimento su Rotten Tomatoes pari al 97%.
Ma il piacere di vedere un prodotto così riuscito non si estingue nel solo pilota; gli episodi si snodano in una dosata lentezza che ho trovato fondamentale per non sciupare tutto e subito.
Ogni puntata aggiunge qualcosa alla storia dei protagonisti portando lo spettatore a simpatizzare con il gerarca o il partigiano o il burocrate o il semplice cittadino per passare alla condanna degli stessi per il comportamento, per le decisioni prese o più semplicemente per una frase detta.
Non avendo gli Stati Uniti una storia recente a cui ispirarsi, specialmente per quanto riguarda un’occupazione subita, la regia ha “saccheggiato” i reportage di guerra registrati nella vecchia Europa nel corso del secondo conflitto mondiale, arricchiti dalle vicende e dalle brutture realizzate dalle potenze europee nelle colonie africane e indiane.

Così la potenza che non ha mai avuto la guerra in casa, che ha subito gli unici veri attacchi a Pearl Harbor nel 1941 e New York nel 2001, ha trovato il modo di “scusarsi” per questa fortuna senza scomodare i soliti attacchi alieni (Indipendence Day, per citarne uno), cucendosi addosso una vicenda avvilente e casalinga potenzialmente credibile, dove gli americani devono combattere una lotta per il proprio territorio, il proprio onore e il proprio futuro.
Quale migliore modo per chiedere perdono dei tanti storici soprusi e interferenze e per guadagnare un sentimento di rivalsa sull’invasore che, di fatto, gli Stati Uniti non hanno mai avuto bisogno di provare?
Questo riscatto agli occhi del mondo va sudato e il telefilm non lesina nel mettere in mostra, anche in maniera mortificante, cittadini statunitensi in file separate dai Giapponesi per prendere un taxi, umiliati dagli invasori, relegati a semplici mezzi inferiori di produzione, spogliati di velleità e sogni. Fantascienza.

Niki Manzoni

The Man in the High Castle: l’incontenibile invidia degli americani per la Resistenza
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