Se non si hanno troppi problemi con determinati linguaggi e svergognata schiettezza di temi e si vuole fare qualche risata vera, sia a grana grossa che fine, Chewing Gum fa al caso vostro: ennesima riprova della potenza creativa british in un panorama televisivo che vede sempre più intaccato lo strapotere (a suo modo meritato) delle produzioni d’oltreoceano. L’idea nasce precoce, nell’anno 2012, e segna da subito la predisposizione spiccata della protagonista Michaela Coel per scrittura e recitazione.
In origine, infatti, lo show dal titolo Chewing Gum Dreams era il progetto/tesi della Coel per laurearsi alla Guildhall, rinomata università di musica e teatro londinese. Il plot consisteva in un one-woman show nel quale la protagonista, in 45 minuti, raccontava la drammatica storia di Tracey, quattordicenne di “borgata” in una Londra contemporanea e alienante. Le recensioni al debutto furono così positive che lo spettacolo venne messo in scena in teatri via via sempre più importanti (Bush Theatre, Royal Theatre Holland, Royal Exchange Theatre), culminando con le ultime repliche al National Theatre nell’anno 2014. Un giro piuttosto longevo, mantenuto da un serrato e entusiasta passaparola, forte anche della vittoria di un Alfred Fagon Award. Gli argomenti trattati e, soprattutto, le potenzialità comiche del prodotto fin troppo drammatico, hanno assicurato nuova vita all’opera che, da subito, è sembrata non scindibile dalla carica interpretativa dell’autrice Michaela Coel.
L’artista, quindi, riscrivendo le scene e rivestendo le molteplici situazioni di un umorismo grasso e allo stesso tempo parodistico, ha dato alla luce Tracey 2.0, ora ventiquattrenne ma non meno problematica, nella versione andata in onda a partire dall’anno 2015 sul britannico Channel 4 e dall’ottobre 2016 anche su Netflix. Tracey è una ragazza inglese nata e cresciuta in una famiglia molto religiosa, costretta in una periferia londinese che costituisce e limita il suo spazio vitale. Del mondo e della vita e delle dinamiche di coppia, infatti, la ragazza conosce poco o niente.
Comprensibili quindi l’essere ancora vergine in età così avanzata e, ovviamente, la sua debordante voglia di liberarsi di questo fardello. I mezzi e i modi ci sarebbero: Tracey è fidanzata da tempo, ma le costrizioni religiose fin troppo sospette accampate dal fidanzato (consapevolmente gay e conscio della comodità di avere al braccio, comunque, una fidanzata), la relegano in una bolla di insoddisfazione e castrazione il cui unico sfogo sono sogni ad occhi aperti e proiezioni emozionali così massicce da non poter non risultare divertenti. La sua esistenza si spalma lenta e sonnolenta tra il lavoro di commessa, la sua soffocante famiglia bibbiosa e gli amici stanchi e demotivati. I tentativi di seduzione verso il granitico fidanzato si susseguono, impacciati e fertili di gag al limite del volgare, fino all’apertura verso nuove e timide possibilità amorose gradualmente benedette anche agli occhi di una rinnovata e più sostenibile idea di peccato.
Ma il percorso non è agevole e noi italiani, con accesso solo alla prima stagione, abbiamo lasciato Tracey ancora impantanata nei fallimenti legati a tanta speranza malriposta e alle conseguenze del proprio riscatto. La scrittura è fresca e veloce e i casi trattati, colorati dalle manie piccole e grandi dei personaggi, per quanto non nuovissimi nei telefilm dell’ultimo decennio, sono raccontati con una innegabile originalità. Tutte le gag e gli episodi divertenti, che all’inizio possono sembrare banali, sfociano in momenti comici e chiusure che difficilmente non strappano la risata allo spettatore. Ogni situazione è funzionale al divertimento: può essere una battuta inaspettata, pronunciata al fulmicotone («Hai male alla gola? Vieni qui! Preghiamo!» – cit.), può essere la truzza trasformazione in Beyoncé per un’uscita attizzatoria o più semplicemente possono essere le incredibili smorfie e evoluzioni mimiche della Coel. Potenzialmente ogni inquadratura può generare ilarità.
È anche e soprattutto questo il merito di Chewing Gum: aver raddolcito e alleggerito il dramma della pièce teatrale che pur strappando risate, manteneva saldo e persistente l’amaro della vita e l’impossibile redenzione della primitiva protagonista. Trovo giusto ricordare e sottolineare che il telefilm, seppur leggero, ridanciano, esagerato, fastidioso ed irreale, nasce da un racconto tutto sommato triste e rassegnato e, soprattutto, ha puntato il riflettore su un talento vero che travalica come un’onda di tsunami il politicamente corretto e le pari opportunità: Michaela Coel non solo è donna, Michaela Coel è parecchio “nera”. Ed è dannatamente brava. Non a caso la sua performance le ha fatto guadagnare nel 2016 il premio BAFTA come miglior interprete femminile in una commedia, senza oscurare nell’ambito della medesima manifestazione una menzione come miglior talento rivelazione nella scrittura e produzione.
I ruoli nel suo carnet, per valutarla appieno, sono ancora pochini e il futuro della Coel è diviso, ovviamente, tra recitazione e produzione, ma per avere un’idea delle sue capacità, provate a vedere (o rivedere) Nosedive, l’episodio dell’iconica serie Black Mirror da noi intitolato Caduta Libera e godetevi il pacato e inesorabile duello verbale in aeroporto tra Bryce Dallas Howard, attrice capace e consumata, e la ancora cruda Michaela Coel, spietata hostess di terra: il buongiorno si vede dal mattino e per me è già la nuova Whoopi Goldberg.
Niki Manzoni