Maniac: un folle caleidoscopio del sé
Presente su Netflix dal 21 settembre 2018, Maniac è una miniserie di 8 episodi creata da Cary Fukunaga, pluripremiato autore di True Detective ma anche regista del doloroso Beast of No Nation.
Maniac è una serie da vedere? Indiscutibilmente, e per svariate ragioni. Maniac è un’esperienza onirica che mette a nudo, trasfigurandoli, i patemi di una società malata e mefitica, in cui la distinzione tra realtà e immaginazione è una sfumatura livida.
Fukunaga ci proietta in un retrofuturo che sembra uscito dall’immaginifico degli anni ‘80, senza troppe spiegazioni e contesti a cui ancorarci nella visione. I due protagonisti, Owen ed Annie, sono presentati quasi distrattamente, mancando l’impellenza di incanalarli in una narrazione più ampia. Maniac sarà su di loro, e sul loro anticonformistico modo di entrare in relazione.
Owen ed Annie sono due sconfitti dalla società, fagocitati nel processo di auto-alimentazione di massa che nega loro una reale identità. Entrambi sono “uno dei tanti”, anonimi e grigi nel loro dolore personale, svuotati di senso, monchi.
L’occasione per i due di incontrarsi e finalmente percepirsi in funzione dell’altro avviene nella più inverosimile e folle delle situazioni: una sperimentazione umana su un farmaco che, a detta dei creatori, dovrebbe curare ogni male della psiche umana.
Lo spettatore viene quindi preso per mano e lanciato sull’ottovolante emotivo dei due protagonisti: le sofferenze di entrambi risalgono a traumi familiari mai risolti, sui quali il miracoloso rimedio agisce, producendo realtà immaginarie alimentate dalle menti coinvolte e governate da un supercomputer, senziente in modo sventurato.
In Maniac ogni cosa è metafora: lo è il mondo in cui è ambientato, simile sia al nostro che al “peggiore dei mondi possibili”, dal quale l’evasione è concessa solo in forma onirica, fumettistica, esasperata. Owen ed Annie sono metafora delle incapacità comunicative del nostro tempo, ma anche dell’umana capacità di sacrificarsi per l’altro. La sperimentazione stessa è sintomatica della facilità delle soluzioni proposte a chi è affetto da problemi psichici, estremizzando l’idea di poter sostituire l’approfondimento personale di un percorso terapeutico con una pillola “prêt à prendre”. E le metafore potrebbero continuare, anche nelle figure secondarie che la serie propone: le ossessioni degli sperimentatori, il vizio come valvola di sfogo, l’ipertrofia materna, il fideismo tecnologico.
Non tutto funziona in Maniac: alcune sezioni fanno più fatica delle altre a coinvolgere lo spettatore, rallentate dealla necessità di riportare, di tanto in tanto, la visione su binari confidenti. Il senso di spaesamento che la serie propone, d’altronde, è il cuore pulsante del progetto, ed in questo senso l’obiettivo è pienamente raggiunto, sfruttando anche artifici come la durata delle puntate molto diversa tra loro (si va dai 27 ai 45 minuti senza troppa cura), così com’era avvenuto anche in The OA.
Sul versante attoriale scopriamo un Jonah Hill maturo, finalmente svincolato dall’urgenza commediale con cui era finora conosciuto, ed una Emma Stone abile nel variare registro e tornare al dramma psicologico già vissuto in Birdman. Mentre i due attori lavorano per sottrazione, i comprimari aggiungono carica alle figure narrate (soprattutto Justin Theroux ed una divina Sally Field), fungendo da contraltare narrativo (non sempre) efficace.
In Maniac si percepisce a tutto tondo la mano pressante di Fukunaga: le scelte registiche e produttive sono nette ed evidenti, alcune sequenze allucinatorie si ricollegano con quelle di True Detective, mentre dove ci si stupisce è nei momenti, spesso assolutamente sperimentali, dei sogni vividi dei protagonisti, in cui si vira spesso in una comicità sardonica e si percepisce chiaramente lo sfasamento rispetto alla realtà della storia.
Alla fine Maniac può suonare troppo ambizioso, essendo infarcito di tanti sensi e significati di vivere di una semantica propria, con il rischio sullo sfondo di risultare un ostico pastiche. Di certo non merita una visione distratta, anche perché non permetterebbe alcuna comprensione allo spettatore meno che dedito.
A visione terminata, la natura divisiva della serie e la certa mancanza di un seguito suggeriscono che Maniac non vuole essere giudicata, ma preferisce offrire un caleidoscopio in cui ognuno possa vederci un po’ di sé.
Nota finale: la giovanissima Julia Garner risulta sempre più un’ habitué delle serie presenti su Netflix: dopo The Americans e Ozark, anche in Maniac si ritaglia una parte fondamentale per l’evoluzione della storia.
Valerio Mocata